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giovedì 2 maggio 2024

Recensione Saggi: CHERNOBYL 01:23:40 di Andrew Leatherbarrow.

Autore: Andrew Leatherbarrow.
Titolo Originale. Chernobyl 01:23:40.
Anno: 2016.
Genere: Saggio Storico.
Editore: Salani Editore.
Pagine: 212.
Prezzo: 15.90 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.
PROSSIMAMENTE
 
Lo scozzese Andrew Leatherbarrow.
 
 
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martedì 30 aprile 2024

Recensione Cinema: CIVIL WAR (2024) di Alex Garland.

Regia: Alex Garland.
Anno: 2024 (Stati Uniti e Inghilterra).
Genere: Azione / Drammatico / Distopico.
Soggetto e Sceneggiatura: Alex Garland.
Attori Principali: Kirsten Dunst, Wagner Moura, Cailee Spaeny, Stephen McKinley Henderson, Jesse Plemons e Nick Offerman.
Montaggio: Jake Roberts.
Fotografia: Rob Hardy.
Musiche: Geoff Barrow e Ben Salisbury. 
Durata: 109 minuti.

Commento a cura di Matteo Mancini. 

Erede di una certa produzione cinematografica, quella dei Carpenter, Romero e Cronenberg, che non ha purtroppo trovato prosecutori, il londinese Alex Garland – già sceneggiatore di 28 Giorni Dopo intercetta il malessere e il clima di sfiducia che serpeggia nel mondo per tentare la carta della distopia. La novità sta nell'inscenare il tutto in un'America "molto" prossima forse addirittura contemporanea. Nonostante il titolo, Civil War non è un film sulla guerra civile ma prende, piuttosto, i contorni di un point to point di formazione che indaga sui risvolti sociali della vicenda. Un manipolo di quattro giornalisti, di diverso grado di esperienza, decide di partire da New York per recarsi a Washington col fine di recepire le ultime dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti ormai prossimo alla capitolazione. Gli Stati Uniti (rappresentati da un'unione disgregata e poco motivata a proteggere il sistema) infatti sono in guerra contro una lega assai motivata. Tutto qua. Un viaggio on the road all'inferno, dalla zona relativamente fredda a quella calda, lungo un cammino che rivela tracce di un precedente passaggio del conflitto. Edifici distrutti, colonne di auto abbandonate, cadaveri disseminati sull'asfalto, carcasse di elicotteri. Non ci sono concessioni alla retorica né all'ironia. L'appesantita Kirsten Dunst (la Mary Jane dello Spiderman di Raimi), fotografa di guerra, nei panni di Lee Smith guida il variegato plotoncino composto dall'allucinato e cinico Joel (Wagner Moura), dal saggio ma obeso Sammy (Stephen McKinley Henderson, tra i migliori in interpretazione) e dalla giovane Jessie Cullen (Cailee Spaeny). È un viaggio nel mondo degli inferi, senza happy end (a seconda dei punti di vista) e con una disumanizzazione delle vittime che, a poco a poco, vengono lasciate indietro, sacrificate in vista di un risultato finale (che sia la deposizione del presidente o la realizzazione di un servizio giornalistico in esclusiva) che sovrasta sentimentalismi e solidarietà. Emblema di questa “involuzione” è Cailee Spaeny e la sua graduale perdita dell'innocenza e della empatia che ne caratterizzava i comportamenti. Entusiasta e sognante a inizio film, diviene fredda, ardita e disposta a passare su tutto, anche sulla morte di un caro. “Mi ricorda te da giovane” afferma Sammy a Lee Smith. Eppure, la “tossicità” rappresentata dall'orrore tende a corrodere nel lungo periodo anche i più esperti. Sotto la scorza della navigata reporter di guerra, la Smith (brava la Dunst nel modificare espressività) va incontro a una vera e propria crisi emotiva sullo scenario finale di guerra e, poco prima, subisce una reazione simile anche lo scanzonato Joel. L'adrenalina e la spinta a realizzare lo scoop, a ogni modo, forniscono un effetto anestetizzante, direi addirittura stupefacente, e rivitalizzano i "nostri" al punto da renderli ciechi alla barbaria in cui sono immersi.

Garland non filtra, non ricorre a sensazionalismi cinematografici o a concessioni eroiche. Il coraggio si paga e lo si paga con la vita. È brutale come lo è una contemporaneità dove la guerra è tornata a bussare alle porte dell'Europa, nell'indifferenza di chi non è coinvolto e pensa che la pace sia una condizione immutabile nel tempo. Da una parte si muore mentre dall'altra ci si diverte. Le immagini sono forti. Vediamo uomini ripresi in primo piano a cui i carcierieri sparano colpi in testa, altri appesi per le mani e pestati a sangue, persino una disturbante fossa comune su cui si sparge la calce viva. Crudissima la sequenza con l'eccezionale cammeo di Jesse Plemons, un ultranazionalista che incarna – nell'ottica di Garland (ci azzardiamo di dire) – certe derive repubblicane e non solo (motivo che ha portato all'insorgenza, negli States, di una serie di polemiche che hanno tacciato il film di essere propagandistico). Eh, sì, perché sebbene nel film non si spieghi nulla sulla rivoluzione civile in corso, sotto sotto, si allude alla crescita degli stati "guerrafondai" del sud degli Stati Uniti e a una loro ribellione verso il governo istituzionalizzato (del resto Jake Angeli e l'invasione del Campidoglio qualcosa insegnano). Da rilevare inoltre il disamore alla politica di certi villaggi, come quello in cui i reporter si meravigliano per vedervi riflessa un'immagine di un'America precedente, un posto tranquillo e placido (in apparenza) non toccato dai conflitti e con una commessa che dichiara: “La guerra civile...? Si, meglio restarne fuori”.

Finale altamente spettacolare, con blitz all'interno della casa bianca, esplosioni e sparatorie da war movie, esaltate dalle semi-soggettive di Garland, oltre che dagli effetti sonori e da un realismo che rende il tutto davvero crudo e cattivo, quasi come se si fosse in un videogioco (si pensi al blitz che portò all'uccisione di Osama Bin Laden). I giornalisti si muovono in sintonia con i militari, ne costituiscono gli occhi e le orecchie destinate a immortalare i momenti per farli penetrare nei documenti che faranno la storia su cui studieranno le generazioni future. Non c'è rispetto per niente e nessuno, neppure per la morte e gli indifesi. Le vittime vengono fotografate nell'attimo del trapasso, crivellate dai proiettili, divorate dalle fiamme, mentre si ride e si scherza. Medesima sorte capita agli amici, solo la Dunst ha un barlume di umanità quando cancella la foto del suo mentore da poco deceduto e fotografato con la testa reclinata sul finestrino di un auto. “Noi non siamo qui per intervenire, siamo qua per documentare” afferma Joel.

Un film dunque senza speranza, senza buoni che racconta la storia dalla parte degli insurrezionalisti. La democrazia è crollata, non certo per mano degli anarchici, e chi si insedi al potere non è dato sapere, ma di certo è un qualcuno che ricorre alla giustizia sommaria e all'esaltazione della provenienza etnica. Potentissimo pugno finale, questo sì romeriano (si veda la parte finale di Night of the Living Dead),  rappresentato dallo “sviluppo fotografico”, è proprio il caso di dire, della fotografia del manipolo di militari che sorridono al fotoreporter, alla maniera di un gruppo di cacciatori al termine di una battuta di caccia, avendo ai piedi la preda della loro battuta: nientemeno che il Presidente degli Stati Uniti. 

Coraggioso, sebbene non supportatissimo dal budget, Garland si trova a dover fare economia nella messa in scena e in certe scenografie da post-atomico. L'immagine di Washington invasa dalle truppe, quasi immacolata nel centro civile, stona un po', salvo interpretare il tutto con una sorta di disinteresse generalizzato dei cittadini alle vicende della propria nazione, finita addirittura in balia di un manipolo minoritario di stati evidentemente più coesi al punto da sovvertire l'ordine. Al di là di tale "limite", il film regge e ha il grosso merito di svinvolarsi dai canonici prodotti commerciali del ventunesimo secolo (tipo Zack Snyder o Roland Emmerich). Un ultimo appunto, sul versante tecnico, lo muoviamo per la regia di Garland, bravo nel momento dell'azione ma ripetitivo nei momenti di tranquillita nell'insistere a oltranza nel proporre giochi di cambio di messa a fuoco tra soggetto in primo piano e soggetto in campo lungo. Da vedere per i fan del cinema d'azione dai risvolti sociali alla Carpenter e Romero. Diventerà un cult.

 
Classico gioco di messa a fuoco,
una caratteristica particolarmente ostentata della regia di Garland.
 

lunedì 29 aprile 2024

Recensione Cinema: CHALLENGERS (2024) di Luca Guadagnino.

Regia: Luca Guadagnino.
Anno: 2024 (Stati Uniti).
Genere: Sentimentale / Sportivo.
Soggetto e Sceneggiatura: Justin Kuritzkes.
Attori Principali: Zendaya, Mike Faist e Josh O'Connor..
Montaggio: Marco Costa.
Fotografia: Sayombhu Mukdeeprom.
Musiche: Trent Reznor e Atticus Ross. 
Durata: 131 minuti.

Commento a cura di Matteo Mancini. 

Luca Guadagnino, cultore di horror - si pensi all'interpretazione personalizzata di Suspiria (2018) - ma anche regista di film dai forti risvolti erotici - si veda il discusso Melissa P (2005) – si conferma ad Hollywood e lo fa con un duello sportivo/sentimentale destinato a lasciarsi ricordare. Questo, infatti, è Challengers, un duello che, in verità, si chiude con un happy-end dai retrogusti western (penso a film come Amore, Piombo, Furore di Monte Hellman) e all'insegna della vera amicizia. Il tema è così classico che più non si può e verte sul mai sbiadito plot della “ragazza in due” innestato su un copione alla Borg vs McEnroe (2017). Tashi Duncan (la sexy e sensuale Zendaya), una giovane promessa del tennis, viene contesa da due ragazzi amici di infanzia, anch'essi validi tennisti caratterialmente molto diversi tra loro. Da una parte abbiamo il tamarro e tenebroso Patrick Zweig (che passa da una ragazza all'altra) contrapposto al bravo ragazzo e monogamo Art Donaldson. Nel mezzo, tra i due, la seducente e grintosa Tashi Duncan, una ragazza non proprio raccomandabile. Justin Kuritzkes, alla sceneggiatura, destruttura la storia di questo ménage à trois e lo fa, grazie all'eccellente montaggio di Marco Costa, seguendo una linea narrativa fatta di continui sbalzi temporali tenuti uniti dalla finale di un torneo minore dove i due grandi amici/nemici, ormai trentenni, si contendono la coppa sotto l'occhio vigile della donna che li ha divisi in un lontano passato (oltre dieci anni prima). Uno di questi cerca il rilancio per tornare sui palcoscenici più importanti; l'altro, invece, ha l'opportunità di esibirsi al cospetto della vecchia fiamma dopo essersi perso nel cammino della vita.

Guadagnino pecca (ma al sottoscritto piace) di leziosità tecnica, utilizzando in tutti modi immaginabili la macchina da presa, fino ad arrivare a proporre la soggettiva della palla da tennis presa a “martellate”, da una parte e dall'altra del campo, dalle racchette. In questo si respira l'amore del regista per gli sperimentalismi alla Dario Argento prima maniera. Alcune inquadrature sono particolarmente riuscite (le soggettive dei giocatori durante il match), ma altre infastidiscono (l'inquadratura ribaltata dal terreno di gioco che da l'idea che i due si sfidino su un campo di vetro). Dettagli dei gocciolii di sudore, dei muscoli in evidenza e un linguaggio a tratti sporco (la scena dove si parla della masturbazione si poteva anche evitare) completano il quadro. Piacciono, invece, molto le caratterizzazioni dei personaggi e i rapporti, in perenne evoluzione, che vengono a delinearsi tra questi. Allo stesso modo è quadratissima la scrittura. Sebbene destrutturata e rimodulata secondo esigenze narrative, lo sceneggiatore chiude tutte le parantesi aperte nel corso della storia (compreso il grido finale della Duncan, che arriva a coronamento di una metafora di rapporto sessuale a tre). Interessante il personaggio di Zendaya (già apprezzata in Dune), che incarna assai bene un contrasto psicologico che cela, sotto un'apparenza di certezza, un'indecisione di fondo dovuta sostanzialmente a un'incapacità di innamorarsi davvero delle persone ("pensi che io voglia veramente qualcuno innamorato di me?"). Il suo personaggio è provocante, materialista, orientato a sfruttare a proprio favore chi ha intorno (finirà per essere manovrata da chi, per punizione o vendetta, intenderà solo portarsela a letto, in realtà in uno squallido accoppiamento in auto). Da antologia erotica (piacerà soprattutto alle ragazze) la sequenza dei tre attori che limonano, con Zendaya che si defila lasciando i due ragazzi a baciarsi tra loro senza che se ne accorgano.

Oltre al personaggio affidato a Zendaya, è molto ben caratterizzato il “genio & sregolatezza” Patrick Zweig (il valido Josh O'Connor), nei panni del golden boy che non ha saputo far fruttare il proprio talento giovanile e che, tra un vizio e l'altro, si trova ora da declassato a giocare la partita che potrebbe dimostrare a tutti che non è affatto un fallito. Più debole e meno spontaneo Art Donaldson (interpretato dal biondo Mike Faist), un soldatino agli ordini di Tashi Duncan che, pur di stare con la donna che ama, si fa manovrare senza accorgersi di essere sfruttato per ragioni psicologiche. Tashi Duncan infatti lo utilizza per soddisfare il proprio ego, così da poter continuare a sentirsi coinvolta dal tennis (dopo un grave infortunio al ginocchio), da allenatrice, per interposta persona. 

Sebbene la pellicola duri oltre le due ore, l'intrattenimento è costante; non c'è un attimo di tregua, garantendo una continuità che fa del ritmo una delle armi di forza della pellicola. Ruolo imporante è inoltre recitato dal marcatissimo uso della musica, proposta in stile bombardamento ipnotico/disco, con Costa, al montaggio, che ricorre al rallentatore per amplificarne l'effetto.

Alla fine il film piace e piace parecchio (ci sono comunque alcune ripetizioni comportamentali, tipo i richiami disciplinari ai giocatori da parte dell'arbitro e i tennisti che distruggono di continuo le racchette quasi a voler fare il verso a Medvedev). Piacerà soprattutto alle ragazze per effetto di un ruolo femminile dominante e manipolatore. Ottimi i riscontri al botteghino, che evidenziano come Challengers, nella prima settimana d'uscita, si sia già issato al primo posto della classifica settimanale degli incassi.  Guadagnino: talento da tutelare e vanto per l'Italia cinematografica.

Sequenza simbolo del film.

"Giocare a tennis è come una relazione."

giovedì 25 aprile 2024

Recensione Saggi: MEZZANOTTE A CERNOBYL

Autore: Adam Higginbotham.
Titolo Originale. Midnight in Chernobyl
Anno: 2019.
Genere: Storico.
Editore: Mondadori.
Pagine: 552.
Prezzo: 18.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.

Saggio a dir poco eccezionale, valutato dal New York Times tra i migliori diciannove libri usciti nel 2019. Lo firma il giornalista inglese Adam Higginbotham, autorevole penna del The New Yorker, che si vede riconoscere, per Midnight in Chernobyl, il William E. Colby Award e la Andrew Carneige Medal. Quattrocentododici pagine, più circa ottanta pagine di note, compongono quello che è il più completo studio sul disastro di Chernobyl, sulle sue premesse e sugli effetti a lungo termine. Higginbotham scandaglia tutti gli aspetti dell'argomento. Si dilunga sulla realizzazione di quella che sarebbe dovuta essere la città dei sogni dell' Unione Sovietica (la bellissima e verde Prypjat), sulle autorità burocratiche che ne indirizzavano lo sviluppo, sulle caratteristiche dei quartieri e sulla vita dei cittadini convinti di trovarsi in un vero e proprio paradiso terrestre dove il tenore di vita era di gran lunga migliore rispetto alle altre città dell'unione. Dalla visione gaudente della città dei fiori, come era definita questa atomgrad di 50.000 abitanti (con prospettiva di arrivare a 200.000) collocata a 13 chilometri dal villaggio di Chernobyl e a tre dalla celeberrima centrale, si passa alla presentazione delle problematiche su scala mondiale del nucleare e sull'importanza assunta nello scacchiere economico dell'energia nucleare per scopi civili, una corsa al progresso che vedeva Mosca in apparente avanguardia sui rivali statunitensi. Higginbotham accenna agli incidenti precedenti a Chernobyl, ivi compreso quello di Three Mile Island, e spiega nel dettaglio il funzionamento dei reattori e, in particolare, del modello RBMK 1000 delucidando i difetti di progettazione oggigiorno tristemente noti.

Il punto forte, ovviamente, non poteva che essere il capitolo dove, minuto su minuto, vengono scanditi i tempi del disastro di quel maledetto 26 aprile 1986. Higgimbotham adotta uno stile a metà strada tra il saggio e il romanzo. I dialoghi tra gli operatori, tutti indicati per nome con un flash sul loro passato e sulle loro passioni, sono spesso diretti, soluzione che conferisce alla lettura una potenza traumatica che arriva a scuotere i lettori. L'esplosione del reattore, l'inadeguatezza delle procedure di sicurezza e l'incertezza di operatori non ancora consci del disastro avvenuto e dei difetti del reattore, tanto da indurre le già poco reattive autorità politiche sovietiche a ritardare (colpevolmente) l'evacuazione della città di trentasei ore senza neppure avvertire la popolazione dei rischi connessi.

Higginbotham compie un'indagine minuziosa. Trasporta il lettore nelle sale riunioni dei politici dove, tra urla e scontri, si cercano di adottare le soluzioni tampone, soprattutto al cospetto della prospettiva di quella che era definita “la sindrome cinese” ovvero il rischio di un inquinamento delle falde acquifere per effetto della progressiva discesa del nocciolo del reattore. L'ansia e la lotta contro le lancette degli orologi è percepibile, così come lo è l'eroismo degli operai e dei vigili del fuoco chiamati a scongiurare una seconda detonazione, oltre che dei militari che successivamente si troveranno a dover bonificare l'area lottando contro un ambiente in balia di radiazioni ben superiori allo scempio di Hiroshima. Tutto questo mentre la nube radioattiva cala il suo carico sull'Europa, costringendo persino l'evacuazione dei bambini da Kiev e lo spargimento in cielo di sostanze chimiche per scongiurare l'arrivo delle polveri a Mosca. Gorbachev deve sudare non poco per indirizzare il partito a rivelare il disastro, contro ogni tentativo di insabbiamento e ridimensionamento.

Gli effetti delle radiazioni prendono presto a manifestarsi sui superstiti. Si tentanto trapianti di midollo ma tutto sembra vano. Muoiono in tanti tra atroci sofferenze, sebbene lo stato affermi esserci stati solo trentuno decessi connessi (arriveranno in seguito a non riconoscere i sintomi del male per evitare di corrispondere indennizzi). Si opta per la realizzazione di un sarcofago, preceduto da un lavoro sotterraneo finalizzato a contrastare l'eventuale discesa del nocciolo. Alla fine gli eroi di Chernobyl vincono la battaglia, ma una circoferenza di sessanta chilometri di diametro subisce in modo intenso gli effetti del disastro. Le foreste si colorano di rosso, gli animali assumono morfologie mutanti, interi villaggi vengono sotterrati. Prypjat viene ufficialmente “dichiarata morta” a inizio 1987, sebbene si conceda ai vecchi residenti l'opportunità di recuperare gli oggetti non troppo contaminati (sciacalli permettendo) ancora conservati nelle abitazioni. Si opta per la realizzazione di una nuova città, Slavutych, anche perché gli esuli di Prypjat tendono a essere isolati dagli altri cittadini che temono di venire contagiati dalle radiazioni.

Un disastro senza precedenti, liquidato in fretta e furia da processi diretti a colpire un gruppo ristretto di operatori senza guardare ai difetti del reattore. La popolazione insorge, protesta contro il nucleare, mentre si diffondono notizie di salsicce radiattive e di raccolti contaminati, per non parlare di allevamenti devastati e rilievi che evidenziano una forte radiottività persino a 300 chilometri da Chernobyl. La fiducia del popolo sovietico viene meno e inizia a minare la stabilità delle fondamenta dell'Unione Sovietica.

Un volume dunque eccezionale che, insieme a Preghiera per Cernobyl di Svetlana Aleksievic, è la “bibbia” per chiunque voglia approfondire la questione. Scritto in modo accattivante, diviso in venti capitoli e dotato di foto e raffigurazioni, scorre via senza intoppi e senza troppi tecnicismi (a parte quelli strettamente legati ai processi di funzionamento del reattore), riuscendo a scuotere chi legge come se fosse alle prese con un romanzo. Higginbotham, infatti, evita di adottare uno stile distaccato e divulgativo tipico dei saggi per utilizzare il materiale delle proprie ricerche al fine di far (ri)vivere tutti i protagonisti della vicenda e il cuore pulsante della loro sfortunata quanto bella città. Semplicemente un capolavoro. Per chi fosse interessato al tema: imperdibile.

 
L'autore Adam HIGGINBOTHAM
 
"L'avanzamento in molte carriere politiche, economiche e scientifiche era garantito soltanto a quanti reprimevano le proprie opinioni personali, evitavano il conflitto ed esibivano ubbidienza incondizionata ai loro superiori... Questo cieco conformismo aveva soffocato le capacità decisionali individuali a tutti i livelli della macchina dello Stato e del partito, infettando non soltanto la burocrazia ma anche i settori delle discipline tecniche ed economiche."

mercoledì 24 aprile 2024

Recensione Narrativa: PAURA NELLA CITTA' DEI RABBIOSI di Alessandro Falanga.

Autore: Alessandro Falanga.
Anno: 2023.
Genere: Horror.
Editore: PAV Edizioni.
Pagine: 84.
Prezzo: 12,00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.  

2023 Fuga da Potenza, questo sarebbe potuto essere il titolo alternativo della novella con cui il potentino Alessandro Falanga rafforza un percorso creativo avviato nel 2020 dal romanzo breve Far from Dead e proseguito da Chi non Terrorizza si ammala di Terrore e, nel 2021, dall'antologia Bolidi. Il minimo comune denominatore tra tutti questi lavori è evidente e ben definito: la violenza di una società destinata a regredire agli istinti primordiali. Falanga, giornalista, recensore di cinema e scrittore classe 1985, è legato agli insegnamenti dell'horror sociale vedendo nel genere un veicolo per parlare attraverso metafore della contemporaneità. Ecco quindi la necessità di garantire continuità ai temi dei suoi precedenti lavori, rappresentati da batteri che trasformano le persone in famelici predatori, dalla regressione in un sistema sociale imbarbarito - in balia dei desideri più reconditi degli uomini - e retto da rigide divisioni in classi sociali, dove soprusi perpetrati da coloro che dovrebbero garantire l'ordine e violenze di ogni genere sono all'ordine del giorno. Un girone dantesco da cui si tenta di evadere, poco interessandosi delle conseguenze generali, per ricostruirsi altrove una vita all'insegna della speranza. Paura nella Città dei Rabbiosi si inserisce nel solco di queste narrazioni, presentando la novità di inscenare la follia nella città di Potenza.

Un improvviso morbo, di cui Falanga non specifica l'eziologia, rende i cittadini di Potenza delle creature idrofobe (occhi iniettati di rosso e schiuma alla bocca) che distruggono tutto quanto si pari loro di fronte. Sebbene il titolo del romanzo rimandi al primo capitolo della cosiddetta “Trilogia della Morte” di Lucio Fulci avviata nel 1980 da Paura nella Città dei Morti Viventi, i riferimenti arrivano da altri prodotti cinematografici quali The Crazies (“La Città Verrà Distrutta all'Alba”, 1973) di George A. Romero, Incubo sulla Città Contaminata (1980) di Umberto Lenzi e 28 Days Later (“28 Giorni Dopo”, 2002) di Danny Boyle. Non troviamo in azione degli zombi, bensì degli uomini, vulnerabili come qualsiasi comune mortale, plagiati e resi ingovernabili da un morbo che si trasmette con lo scambio di fluidi organici. Il contagio è esteso e fuori controllo. Manifesta i suoi sintomi nell'arco di pochi secondi dalla contaminazione, annullando la parte razionale degli uomini a totale beneficio di quell'animale e istintiva. I contaminati corrono, si nutrono di alimenti ordinari (aspetto innovativo), si aiutano tra loro, dormono e sono dotati di una forza abnorme al punto da rendere non consigliabile all'uomo di intraprendere un confronto corpo a corpo con loro.

L'autore procede per cenni, preferendo sfumare i dettagli e lasciare ai lettori il compito di intuire cosa sia successo. Scopriamo infatti all'epilogo che l'epidemia di rabbia si è verificata nella sola Potenza, debitamente isolata dal resto del mondo da un cordone di militari e dalla totale disconnessione da reti televisive, internet e circuiti telefonici. Non è dato saperne i motivi. Quello che è certo è che Potenza, quale novella Pripjat, è stata dimenticata dall'intera nazione. La soluzione ricorda un po' il film inglese Doomsday (2008) di Neil Marshall, sebbene il tutto si articoli in circa due anni di narrazione.

Lo sviluppo è dunque poco approfondito e avrebbe meritato una lunghezza superiore. Falanga sottovaluta inoltre il motivo per cui gli abitanti di Potenza tardino a comprendere di essere al centro di quello che pare essere un esperimento sociale (soluzione preferibile rispetto all'insorgenza di una vera e propria epidemia, vista la stanzialità della vicenda). Il protagonista, pur essendo inizialmente dotato di auto, non tenta di fuggire dalla città, ma persiste a vagarvi da vero e proprio randagio incarnando, in parte, lo spirito anarchico (in quanto non schierato in nessun gruppo sociale) tipico dei personaggi di John Carpenter (gli manca un pizzico di tamarraggine). Una scelta, quella di restare in città, mutuata anche da tutti gli altri superstiti che accettano quanto successo, cercando di riorganizzarsi al punto da espropriare un intero quartiere per ricollocarlo ai più facoltosi. Vengono per tale via a formarsi quattro grandi gruppi destinati a spartirsi il controllo territoriale della città,in nome della legge del più forte. Il concetto filosofico dell'homo homini lupus domina dunque senza compromessi, polverizzando secoli di insegnamenti giuridici. Militari degeneri, burocrati votati alla soddisfazione dei bisogni fisiologici, e futuristiche amazzoni combattono per le strade cercando di evitare i massivi attacchi dei rabbiosi, facendo degli stessi un ludico passatempo per vincere la noia (rimando ai redneck di Night of the Living Dead).

In questo contesto, Falanga cala una co-protagonista quasi kinghiana (penso alla bimba di Firestarter) dotata di una sorta di potere parapsicologo in grado di controllare e indirizzare i rabbiosi (vago rimando a L'Invasione degli Ultracorpi). La piccola sembra inoltre aver sviluppato una resistenza al morbo. Un vero e proprio portatore sano che, a livello subliminale, rievoca le problematiche del periodo di covid-19 (a cui forse si ricollega anche la decisione di strutturare la storia su un arco temporale di due anni). Quest'ultimo riferimento è peraltro sottolineato dall'egoismo generale che sottende alle scelte dei singoli (protagonista compreso).  Nessuno, in una situazione emergenziale, sembra valutare l'interesse collettivo focalizzandosi, piuttosto, sui propri fabbisogni calpestando tutto e tutti.

Pesa sul ritmo e sulla capacità di rapire l'attenzione dei lettori, ad avviso di questo recensore, la decisione di non ricorrere ai dialoghi. Falanga narra, riassume gli eventi, fa luce sul passato con un stile quasi saggistico, piuttosto che mettere in scena gli accadimenti. Fanno eccezione alcuni spostamenti da un quartiere all'altro e alcune avventure che hanno in comune l'assoluta assenza di spirito di solidarietà verso chi non è riconosciuto quale proprio simile. Il sospetto, i giudizi sommari e la pratica della tortura completano il quadro.

Punto di forza dovrebbe essere la scenografia urbana. L'autore intende omaggiare Potenza e, per questo, cita quartieri, vie, negozi e quanto possa essere utile a innescare nella mente dei lettori una sovrapposizione tra quotidianità e “apocalisse zombi”. La cosa è destinata a funzionare su chi effettivamente conosca le zone citate, ma si presta meno a solleticare la fantasia dei “forestieri”. Si ha infatti l'impressione che si dia per scontato che il lettore conosca Potenza, aspetto questo tutt'altro che ovvio. In altre parole, mancano delle pennellate che possano suggerire la fatiscenza o la decadenza dei luoghi, descrivendone le peculiarità e quanto prima li caratterizzasse, dando invece campo a una  visione d'insieme sprovvista di quell'emotività in grado di trasmettere il quid in più necessario a lasciare traccia nella memoria.

Sul versante formale si notano qualche refuso e alcuni periodi che, forse, sarebbe stato preferibile alleggerire. Niente di grave, sia chiaro. La lettura rimane sufficientemente scorrevole.

Dunque un'opera più cinematografica che letteraria, con dei limiti dovuti soprattutto a un plot ultra collaudato che innovativo certo non è. Evidente la passione di Falanga per una certa tipologia di cinema anni settanta e ottanta, quei cult che hanno in maestri quali George A. Romero e John Carpenter le maggiori figure di riferimento. Un po' di tamarraggine nel delineare il protagonista avrebbe elevato la storia, così come avrebbe potuto aiutarla un approfondimento sui motivi a fondamento dell'epidemia. Da non perdere per i cittadini di Potenza anche perché Paura nella Città dei Rabbiosi è stato definito "il primo horror zombie ambientato in Basilicata".

 
L'autore ALESSANDRO FALANGA a dx,
a sx la sua antologia BOLIDI.
 
"La chiave di tutto era Speranza; grazie al suo potere avrebbe potuto creare un varco in quel recinto e scappare, anche se questo avrebbe messo a rischio l'intera specie umana ma, in quel momento, a Luca non interessava ciò che sarebbe potuto capitare nel resto della nazione."

domenica 21 aprile 2024

Recensione Narrativa: INVASIONE di Massimo Gardella.

Autore: Massimo Gardella.
Anno: 2023.
Genere: Fantascienza.
Editore: Delos Digital.
Pagine: 192.
Prezzo: 16,00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.  
Facciamo oggi la conoscenza di Massimo Gardella, milanese classe 1973 noto soprattutto in veste di traduttore di Alan Moore e di Gene Wolfe. Maurizio Cometto lo seleziona per tenere a battesimo la neonata collana “Frattali” della Delos Digital, puntando su un romanzo meno originale di quanto potrebbe apparire a un primo contatto. Gardella torna alla sci-fi dopo circa quindici anni, da quando nel 2009 dette alle stampe Il Quadrato di Blaum. Lo fa cercando di cucire tra loro mainstream e narrativa di intrattenimento, con uno stile leggero e fluido sotto il quale si cela un contenuto sociologico. Il fantastico infatti, inizialmente, resta ai margini della vicenda, fungendo da trait d'union di una serie di storie di vita comune in cui i protagonisti sono, per lo più, dei perdenti. Al centro dell'interesse è il comune vivere di individui che persistono a fare la loro vita nonostante a orizzonte troneggino delle misteriose astronavi discese dallo spazio. L'autore porta avanti la narrazione attraverso una suddivisione del romanzo in una serie di racconti tra loro non collegati, che spostano, di storia in storia, il periodo di riferimento secondo una scansione temporale progressiva così da aggiungere dettagli maggiori sulla bizzarra fenomenologia che avvolge l'intero pianeta. Si tratta, a parte lo spiazzante finale, di nove mesi avviati dall'arrivo delle astronavi e conclusi dalla partenza delle medesime, aprendo la via a un mondo destinato a estinguersi. Così la storia si apre con un safari in Kenya finito nel sangue, sul modello di film quali Prey – La Caccia è Aperta (2007); si prosegue con un bandito incapace di ricucire il rapporto di fiducia con la madre e che decide di compiere un'ultima rapina buttando alle ortiche la chance offertagli dalla riconquisata salute; quindi è la volta di un ragazzino che scopre di disegnare il medesimo soggetto tratteggiato da tutti i compagni di classe; troviamo poi un ubriacone che perde il lavoro e nonostante questo non fa niente per porre fine alla sua parabola decadente, seguito dalla storia di un vedovo costretto ad ascoltare i ricatti dei figli che vorrebbero venderne le proprietà nonostante navighino in buone acque, fino ad arrivare a una fotografa di animali alle prese con la dipartita di tutte le creature della Terra. Al di là delle varie sfumature, il tema resta sempre lo stesso ovvero le reazioni umane al cospetto dello straordinario.

Gardella prende le mosse dall'esperienza covid, da cui mutua le iniziali reazioni dei governi del mondo chiamati a far fronte a una fenomenologia a dir poco straordinaria, per inserirsi nel solco dei romanzi alla The War of the Worlds (“La Guerra dei Mondi”, 1897) ma con un'impostazione pessimista. Il ritmo è piuttosto lento e cadenzato da una struttura che, ogni volta, interrompe la curiosità dei lettori per resettare il tutto e riprendere la questione da una diversa prospettiva. C'è da riconoscere a Gardella di esser riuscito, per tale via, a rendere credibile la componente fantastica, al punto da farla apparire come un qualcosa di verosimile incastonando la vicenda in un quadro di insieme ordinario. A ogni passaggio, inoltre, vengono forniti dettagli nuovi che, a poco a poco, riconducono la narrazione verso un fantastico (quasi di valenza religiosa) destinato a scardinare il mainstream. I personaggi sono molto caratterizzati, forse troppo visto che vengono abbandonati dopo appena un capitolo, portando - in alcune parti del testo - i lettori a sorvolare sul loro passato. Ecco che viene plasmata una struttura corale che procede lasciando il tema principale sullo sfondo. Al centro della narrazione, in apparenza, sono le storie di uomini, per lo più ai margini della società, e le loro reazioni (disinteressate) al cospetto dell'evento straordinario. A parte l'estraniamento iniziale, dovuto alla presenza delle trentasette astronavi dislocate in altrettanti punti del mondo, l'uomo sembra abituarsi a tutto cosi' da tornare al suo rapporto irrispettoso con la vita (forse questo sarà il motivo della decisione finale adottata dagli alieni). Si continua ad andare a scuola, i cantieri edili proseguono nel loro lavoro, i criminali persistono a delinquere, i turisti fanno selfie usando le astronavi di sfondo e la polizia controlla le auto sottoponendo gli autisti all'etilometro. Gardella guarda in modo evidente a Independence Day, da cui prende la componente visiva delle astronavi, ma sono percepibili rimandi anche a Wyndham, Machen (il riferimento va a The Terror) e Schatzing, oltre al mito del Diluvio Universale. Gigantesche astronavi, avvolte da nubi, restano sospese nel cielo, nell'immobilità più assoluta, protette da archi magnetici che rendono impossibile ogni forma di interazione (stanno forse studiando l'uomo, valutandone la salvezza piuttosto che la condanna?). Dopo aver rilasciato uno spray verde che guarisce gli umani da ogni male, attendono qualcosa che nessuno riesce a comprendere (probabilmente la riconoscenza e la redenzione dell'uomo). L'Organizzazione Mondiale per la Sanità, inizialmente, reagisce istituendo lockdown e rendendo obbligatori tamponi e lascia passare. Giornalisti e trasmissioni tv analizzano la questione, suggerendo l'imminenza di una “ripartenza”. La cittadinanza risponde con fogli riportanti la scritta “andrà tutto bene”. Non manca chi, convinto della sussistenza di un complotto, cerchi una via per arrivare alle astronavi, così come i militari studiano soluzioni per respingere gli alieni che, alla lunga, iniziano a scocciare. Intanto gli animali prendono a ribellarsi all'uomo, interrompendo la normale catena alimentare per instaurare tra loro una pace di valenza biblica che porta alla formazione di veri e propri greggi variegati che si muovono verso le astronavi (atteggiamento che porterà alla loro salvezza). I cetacei perdono l'orientamento nei mari, i pesci guizzano ammassandosi sotto le astronavi senza che nessun biologo giunga a fornire una spiegazione. Gardella strizza più di un occhio a Der Schwarm (“Il Quinto Giorno”, 2004) di Frank Schatzing, da cui vengono riprese parti essenziali della storia (quasi tutta la parte del condizionamento animale). L'epilogo, piuttosto a sorpresa e in modo “pacifico”, volge in direzione dei romanzi apocalittici tipo “The Last Man” (“L'Ultimo Uomo”, 1826) di Mary Shelley, con un finale cattivissimo dove si suggerisce la pratica del cannibalismo in una terra futura, a distanza di trentanni dalla ripartenza delle astronavi, dove l'infertilità degli uomini è divenuta la condanna inflitta dall'alto dei cieli. A differenza degli animali, l'uomo non riesce a vivere in pace e, rimasto solo, persiste a compiere omicidi e guerre. Dal mondo del cinema, dunque, si torna alle pietre miliari della narrativa apocalittica ottocentesca rappresentata da testi quali Le Dernier Homme (1805) di Jean Baptiste Cousin de Grainville. Dunque un romanzo che definirei, nonostante tutto, classico, sebbene sviluppato con piglio realista nell'intento (riuscito) di fornire ai lettori un'illusoria percezione ottenuta attraverso una narrazione concentrata, più che sul sense of wonder, sulle quotidiane attività del comune vivere. 

Sorta dunque di metafora attraverso la quale Gardella condanna l'umanita' (bambini esclusi) all'estinzione per l'incapacita' di far tesoro degli insegnamenti ricevuti. Lo spray verde che tutto guarisce (rimando alla vittoria sul covid) e la permanenza delle astronavi (rimando alla parusia) non riescono a cambiare le abitudini sbagliate dell'uomo ancora acciecato dall'egoismo e incapace di sfuttare la seconda chance che gli e' stata offerta. Del resto basti vedere come dopo una pandemia si sia ritornati sulle vecchie vie, dando luogo a guerre e tornando a minacciare l'impiego delle armi nucleari.

Interessante. Imperdibile per i fan del genere "invasione extraterrestre".

 
L'autore Massimo Gardella.

martedì 16 aprile 2024

Recensioni Cinema: OMEN - L'ORIGINE DEL PRESAGIO di Arkasha Stevenson.


Regia: Arkasha Stevenson.
Anno: 2024 (Stati Uniti).
Genere: Horror.
Soggetto: Ben Jacoby.
Sceneggiatura: Arkasha Stevenson, Tim Smith e Keith Thomas.
Attori Principali: Nell Tiger Free, Maria Caballero, Nicole Sorace, Ishtar Currie-Wilson, Ralph Ineson, Sonia Braga e Bill Nighy..
Fotografia: Aaron Morton.
Musiche: Mark Korven. 
Durata: 120 minuti.

Commento a cura di Matteo Mancini. 
A quasi cinquanta anni da Omen – Il Presagio, la 20th Century Studios torna alle origini del male. Lo fa dopo aver prodotto due sequel ufficiali, un prodotto televisivo, un remake e una serie televisiva. Grandi aspettative, in buona parte non deluse. Arkasha Stevenson, dopo alcuni cortometraggi e un paio di episodi televisivi, debutta alla regia cinematografica in modo molto convincente e fornisce una prova che lascia ben sperare per il suo futuro. The First Omen cerca di seguire la scia del primo capitolo, per registro e per costruzione narrativa, aggiungendo un pizzico di thrilling rappresentato da un'indagine su una serie di parti di bimbi deformi frutto degli strani accoppiamenti avvenuti all'interno di un orfanotrofio (ricorda moltissimo il racconto di Paolo Di Orazio intitolato L'Incubatrice). Da ricordare, sul versante della regia, le sequenze piuttosto disturbanti dei parti, sottolineate dai primissimi piani su mani legate, bisturi che scorrono sulla carne e rapide inquadrature di gambe divaricate da cui fuoriescono liquidi organici (e persino una mano demoniaca!?). Altra caratteristiche della Stevenson è una certa insistenza nel proporre i rallenty.
Veniamo ora alla storia. Siamo a Roma, nel 1971, nove mesi prima dei fatti de Il Presagio a cui la pellicola si cuce nel finale. La produzione investe su auto e costumi, ben attenta a calare gli spettatori nel tempo che fu. Lo stesso non può dirsi per chi ha montanto le musiche ballate in discoteca. Si sentono infatti brani come Rumore di Raffaella Carrà e Daddy Cool dei Boney M che sono usciti qualche anno dopo rispetto all'anno di ambientazione del film.

La fotografia è molto più solare di quella del 1976, ma ciò non incide sulle atmosfere soffocanti e per buoni tratti claustrofobiche. Ben Jacoby, al soggetto, propone un plot che si apre con un antefatto violento (e un po' telefonato), per seguire uno sviluppo piuttosto lento che entra progressivamente nel vivo prendendosi tutti i tempi necessari. Purtroppo la regista – coadiuvata da Tim Smith e Keith Thomas – decide di restare in zona comfort in fatto di scrittura. La sceneggiatura infatti, oltre a ricalcare un paio di decessi su quelli già proposti da Richard Donner (il suicidio e la morte del prete provocata da un oggetto sacro che piove dall'alto), si tiene ben lontana dal proposito di innovare, preferendo percorrere vie commerciali già battute da altre celebri pellicole. Fortissime, infatti, sono le contaminazioni con Rosemary's Baby (la parte dell'amore della madre per la creature demoniaca), il nusploitation (sebbene la storia non sia ambientata in un convento, bensì in un orfanotrofio gestito da suore), La Chiesa di Michele Soavi (accoppiamento bestiale per mano dei preti) e persino Suspiria di Luca Guadagnino da cui viene ripresa la parte finale.

Stranamente si decide di modificare alcuni elementi della storia di David Seltzer. In prima battuta, l'anticristo non viene più partorito da uno sciacallo, ma da una donna ingravidata da uno sciacallo-demone (bella la scena dell'accoppiamento). Più comprensibile, invece, la scelta di introdurre la variante della sorella gemella dell'anticristo. Pare ovvio ritenere, infatti, che gli autori abbiano voluto riservarsi la possibilità di proseguire la serie con un sequel parallelo alle vicende de Il Presagio e La Maledizione di Damien. Non mancano i vuoti narrativi, a partire dalla creatura demoniaca (lo sciacallo) che vive nei sotterranei dell'orfanotrofio, di cui non è dato sapere nulla, e che viene mostrata all'epilogo misteriosamente abbandonata dagli accoliti demoniaci (che agirebbero per il bene della Chiesa, favorendo l'avvento dell'anticristo col fine di avvicinare le persone alla chiesa!?). Non convince inoltre la salvezza di Padre Brennan (rimasto coinvolto in un sinistro, ma non finito dai prelati deviati) e soprattutto delle “sorelle sataniche” e della neonata che riescono a salvarsi dall'incendio che avrebbe dovuto ucciderle.

Insomma, si poteva fare di meglio, ma non c'è da lamentarsi, poiché il risultato sperato viene comunque centrato. The First Omen è di gran lunga superiore alla media degli horror del nuovo secolo (a partire da L'Esorcista del Papa). La sensazione di disagio dello spettatore è costante per buona parte della proiezione, consentendo al film di fare il suo lavoro. In molte sequenze inquieta, aiutato dagli effetti sonori e dalla colonna sonora. Non manca qualche effetto grandguignol, nel rispetto del primo capitolo. Piacciono meno gli effetti “bubù settete” alla Conjuring, con spettri che si materializzano d'improvviso giusto per far saltare sulle poltroncine gli spettatori.

Sul versante recitativo, piace molto Nell Tiger Free, nei panni della protagonista. Delicata e dolce, l'attrice inquieta con alcuni sorrisi distorti che rimandano a quello del piccolo Damien dell'epilogo del film di Donner ma anche a Lost Souls. Da rilevare un paio di inquadrature, dall'alto, sulla testa della Tiger Free, sdraiata a letto e spettinata in modo da ricordare la chioma di Medusa. Sinistra Ishtar Currie Wilson nei panni di una suora ritardata; erotica e provocante Maria Caballero, che rappresenta il ruolo di una suora tentatrice che ricorda la meretrice di Babilonia. Vietato ai minori di anni 14. Da vedere.

La protagonista
Nell Tiger Free
in un primissimo piano da gorgone